Wonder

Nella storia del cinema sia recente che classica, le storie di ragazzi, bambini o adulti straordinari sono davvero tante. Partendo da Forrest Gump, passando per Mi Chiamo Sam per arrivare poi a Buon Compleanno Mr Grape. Sono solo alcuni dei film che hanno per protagonisti persone speciali che per un motivo o per l’altro devono sgomitare nella società per essere accettati non solo dai pari, ma da tutte le persone, e questo semplicemente perché una malformazione fisica o cognitiva li rende “diversi” da tutti gli altri. 
Inevitabilmente lo spettatore che guarda questi film è mosso da compassione, da desiderio di giustizia per il protagonista. E questo accade non solo perché i personaggi sono magistralmente interpretati, riuscendo quindi a toccare le più profonde corde della sensibilità di chi li guarda, ma anche perché una sottile vena di paura comunque si accende nello spettatore. Perché paura? Perché ciò che non rientra in ciò che ci viene insegnato sia “normale” ci fa capire che siamo vulnerabili, portando a galla le nostre fragilità e le nostre debolezze. Da ciò spesso consegue un atteggiamento di rifiuto verso chi è apparentemente più fragile e questo può sfociare in comportamenti antisociali di vario tipo.
Questo è uno dei presupposti da cui parte il bullismo e l’emarginazione di intere categorie di persone, sia nelle scuole che negli ambienti di lavoro più diversi. 

Ebbene Wonder va ad inserirsi all’interno di questo panorama e racconta la storia di un bambino di 11 anni che a causa di una malformazione genetica dovrà subire circa 27 interventi chirurgici al viso. E in particolar modo viene raccontato come il bambino affronta il primo giorno di scuola nella prima media, dopo aver studiato per tutta la vita a casa con la madre. Ecco a questo punto, per le suddette premesse, dovremmo essere portati, da spettatori ad immedesimarci nel ragazzo, e vivere con dispiacere ogni sua peripezia, ebbene no, non in Wonder, questo delicato film, ci mette nelle condizioni di dover sopportare un punto di vista, forse ancor più vulnerabile di quello del protagonista stesso, ovvero il punto di vista della madre. Una madre che ama il figlio in maniera profonda, come ogni madre del resto, una madre, intelligente, profonda, ma che arrivata davanti al cancello della scuola lo dve lasciare andare da solo in mezzo a decine di adolescenti che chissà quali angherie riserveranno al suo bambino. E tutto questo senza poterlo difendere, senza sapere se una volta a casa le confiderà le sue emozioni o i suoi vissuti, vorrebbe solo dirgli “non sei obbligato a stare qui, vieni a casa con la mamma”. Ma purtroppo non può farlo, quella non sarebbe la realtà, quello non sarebbe giusto. Essere mamma significa dare gli strumenti ai propri figli per sapersela cavare nel mondo anche senza il suo sostegno, essere forti e sperare sempre che, come viene detto nel film, “Quando  ti viene data la possibilità di scegliere se avere ragione o essere gentile, scegli di essere gentile”.

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